Foto e testimonianze dei liquidatori

I LIQUIDATORI AL LAVORO

La sequenza fotografica proposta rende, solo in parte, l’idea dell’impegno, del dramma personale ed anche (pur nella tragedia) della passione che i liquidatori hanno profuso. Essi, più o meno consapevoli della pericolosità e seppur sospinti dalla retorica socialista dell’ex URSS, sapevano, però, di essere attori di un evento memorabile che avrebbe salvato migliaia di vite umane.
Molte, meno le loro.
Che la bandiera issata sul sarcofago finito sia il monito e la certezza che tali incidenti non abbiano più a ripetersi

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Le parole di queste persone non spiegano chi o cosa provocò l’incendio, né elencano gli isotopi che hanno contaminato l’aria, ma simboleggiano la vera tragedia di Chernobyl: l’inconsapevolezza e l’ingenuità della gente, che, non sapendo cosa fosse la radiazione e non essendo stata preparata, non si rese conto di ciò che stava succedendo e continuò a respirare e ad assorbire il veleno che la centrale emetteva; che non scappò e non capì che da quel giorno la radiazione, quella strana cosa talmente piccola da essere invisibile agli occhi, ma talmente potente da distruggere una vita in poche ore, avrebbe cambiato ogni cosa.

TESTIMONIANZA DI UN LIQUIDATORE, SOPRAVVISSUTO

Mi chiamo Vladimir e ho 63 anni. Facevo il geometra.

Pioveva acqua arancione e tutto il terreno era diventato di quel colore, siamo interventi subito, dovevamo entrare a turno nel reattore, solo 2 minuti per squadra, nessuna difesa, tanto era inutile.

E’ stata una lotta contro il tempo per bloccare il reattore e per non morire all’istante. Avevo la gola gonfia per lo iodio radioattivo, non riuscivo più a parlare.

Io me la sono cavata con 2 ictus, colpa dell’intossicazione da piombo. Ma tanti sono morti, anche ragazzi, molto giovani.

TESTIMONIANZA MAMMA DI UN LIQUIDATORE

“Mio figlio era entusiasta del suo lavoro. “Mamma – mi disse- mi danno 100 dollari al mese, la televisione e le medicine gratis, una bella casa. Potrò viaggiare senza pagare sugli autobus e andare in vacanza per un mese in Crimea.”

Ma poi, mio figlio è morto di leucemia”.

RACCONTO DI LJUDMILA IGNATENKO, MOGLIE DEL DEFUNTO VIGILE DEL FUOCO VASILIJ IGNATENKO[1]

“… Ci eravamo da poco sposati. Quando uscivamo insieme ci tenevamo sempre per mano, anche se entravamo in un negozio… Vivevamo negli alloggi del reparto dei vigili del fuoco dove lui prestava servizio. Al primo piano. E c’erano altre tre giovani famiglie, la cucina era in comune. Di sotto, al pian terreno, c’era la rimessa delle macchine antincendio. I rossi carri dei pompieri. Era il suo lavoro. Io sapevo sempre dove si trovava, quello che rischiava.

In piena notte sento un rumore. Guardo dalla finestra. Lui mi vede: “Chiudi le soprafinestre e torna a dormire. C’è un incendio alla centrale. Tornerò presto”.

Lo scoppio vero e proprio non l’ho visto. Solo fiamme. Era tutto illuminato… Tutto il cielo… Le fiamme alte. La fuliggine che ricadeva. Un calore terribile. E lui che non arrivava. La fuliggine veniva dal bitume che bruciava, il tetto della centrale era coperto di bitume. Più tardi lui mi racconterà che ci avevano camminato sopra ed era molle come la pece. Loro spegnevano le fiamme. Gettavano giù a pedate pezzi di grafite incendiati… Erano partiti così com’erano, in camicia, senza indossare la tuta protettiva. Non li aveva avvertiti nessuno, li avevano chiamati come per un normale incendio.

Le quattro del mattino… le cinque… le sei… Alle sei avevamo in programma di andare dai suoi genitori. A piantare le patate…

Le sette… Alle sette mi hanno fatto sapere che lui era in ospedale. Ci sono andata di corsa, ma l’ospedale era già isolato dagli agenti della milizia che tenevano la gente a distanza. Lasciavano passare solo le autoambulanze. Gli agenti gridavano: non avvicinatevi alle macchine, sono tanto radioattive che bloccano i contatori al massimo della scala. Non c’ero solo io, erano accorse tutte le mogli, tutte le mogli degli uomini che si trovavano alla centrale quella notte. Mi sono precipitata a cercare una mia conoscente che lavorava come medico proprio in quell’ospedale. “Fammi passare!” “Impossibile! Lui è messo male. Sono tutti quanti messi male”. “Solo uno sguardo” “D’accordo, però di corsa, solo per quindici, venti minuti”.

L’ho visto… Tutto gonfio, tumefatto… Quasi non gli si vedevano più gli occhi… “Ci vuole del latte. Molto latte” mi ha detto la mia conoscente. “Devono berne almeno tre litri al giorno”. Oltre ad alcuni medici, molte infermiere e soprattutto ausiliarie di quell’ospedale di lì a qualche tempo si sarebbero ammalate… sarebbero morte… ma allora non lo sapeva nessuno…

Alle dieci del mattino morì l’operatore alla strumentazione Sisenok… Fu il primo… Il primo giorno… Più tardi venimmo a sapere che un altro, Chodemcuk, era rimasto sotto le macerie. Non sono riusciti a recuperarlo. È rimasto nella colata di cemento. Ma noi non sapevamo ancora che loro erano soltanto i primi…

“Vasen’ka, cosa posso fare?” “Vai, via di qui! Pensa al bambino”. Infatti ero incinta. Ma come facevo a lasciarlo lì? Lui quasi mi supplica “Salva il bambino!”

Prima il latte, poi si deciderà… Ma il latte li faceva vomitare terribilmente… Perdevano continuamente i sensi, gli misero le flebo. I medici, chissà per quali motivi, continuavano a ripetere che erano stati dei gas ad avvelenarli, nessuno parlava di radiazioni. E intanto la città si riempiva di veicoli militari, tutte le vie venivano sbarrate, i treni non viaggiavano più, né quelli suburbani né quelli per le altre città… Lavavano le strade con una polvere bianca… Io ero preoccupata: come avrei fatto il giorno dopo a prendere il latte fresco al villaggio? Nessuno parlava di radiazioni… Soltanto i militari indossavano delle maschere… I cittadini portavano a casa il pane comprato nei negozi: sporte piene di panini, aperte… I dolci erano esposti sui banconi, senza nessuna protezione…

La sera all’ospedale non mi lasciarono entrare… Mi misi davanti alla sua finestra, lui si avvicinò al vetro e cominciò a gridarmi qualcosa. E con tanto accanimento! Qualcuno della folla capì: stavano per portarli a Mosca, già quella notte…Ma non ci fecero andare con loro.

Notte…

Lungo il lato della strada principale gli autobus, centinaia di autobus (stavano ormai preparandosi ad evacuare la città) e lungo l’altro lato centinaia di carri dei pompieri. Li hanno fatti arrivare da ogni dove. Tutta la via è inondata di schiuma bianca… La percorriamo, imprechiamo e piangiamo…

La radio annuncia che la città sarebbe stata probabilmente evacuata, per tre o forse cinque giorni: preparare indumenti caldi e tute sportive, dissero, si vivrà nei boschi. In tenda. Alcuni diventarono perfino allegri: una scampagnata! In mezzo alla natura. Festeggeremo lì il Primo maggio. Qualcosa di insolito. Si preparavano degli spiedini per il viaggio… Si prendevano chitarre, registratori…

Piangevano solo le mogli di quelli che erano rimasti coinvolti nell’incidente.

Il viaggio non lo ricordo… Solo quando vidi sua madre tornai in me: “Mamma, Vasja è a Mosca! L’hanno portato via con un aereo speciale!”. Finimmo comunque le semine nell’orto (e di lì a una settimana avrebbero evacuato il villaggio!).

Ma chi lo sapeva, chi poteva saperlo allora?

Verso sera cominciai a vomitare. Ero al sesto mese di gravidanza. Stavo così male… la mattina dopo mi sono alzata con l’idea di andare a Mosca. Neanche questo viaggio ricordo… A Mosca chiedemmo al primo agente che incontrammo in quale ospedale fossero ricoverati i pompieri di Chernobyl e lui ce lo disse senza problemi; la cosa mi meravigliò abbastanza, perché a noi avevano messo paura: segreto di stato, segretissimo.

Ospedale numero sei in via Scukinskaja.

Ed eccomi nello studio della responsabile. “Avete figli?” Come facevo a dirle la verità? Sapevo già di dover nascondere il mio stato. Altrimenti non avrebbe autorizzato la visita! Sì, rispondo, un maschietto e una femminuccia. “Se ne hai due, probabilmente non ne avrai altri. Adesso ascoltami bene: il sistema nervoso centrale è irreparabilmente compromesso, idem il midollo spinale.” Pazienza, vuol dire che soffrirà di nervi.

“E’ proibito abbracciarsi e baciarsi. E avvicinarsi. Ti do mezz’ora”.

Entro nella stanza… E’ talmente buffo, ha indosso un pigiama taglia quarantotto quando gli ci vorrebbe una cinquantadue…

Tutti i ragazzi erano stati separati, ognuno in una stanza per conto suo. Avevano loro categoricamente proibito di uscire in corridoio. Di avere dei contatti. Comunicavano battendo sulle pareti. Vicino ai loro letti le lancette dei contatori si bloccavano al massimo della scala già ad accostarli alle pareti. Avevano sgomberato tutto, non c’era più neanche un malato.

I primi tre giorni ero ospite di certi miei conoscenti. Preparavo del brodo di tacchino, per sei. I nostri sei ragazzi, i pompieri… Tutti dello stesso turno… Erano di guardia insieme quella notte.

La mattina presto vado al mercato e da lì a casa dei miei conoscenti, poi preparo il brodo. Va tutto sminuzzato, grattugiato. E poi all’ospedale. Resto lì fino a sera e poi di nuovo all’altro capo della città. Ma dopo tre giorni mi proposero di alloggiare nell’albergo per il personale medico, che fortuna!

“Però lì non c’è cucina, come farò a preparare loro da mangiare?”

“Non ce ne sarà più bisogno. Ormai i loro stomaci hanno smesso di assimilare il cibo.”

Lui cominciò a cambiare… Le ustioni affioravano in superficie… In bocca, sulla lingua, sulle guance… La mucosa si staccava a strati… In pellicoline bianche…Il colore del viso… Il colore del corpo… Blu, rosso grigio marrone…

La prognosi per la sindrome acuta da irradiazione è di quattordici giorni… In quattordici giorni il paziente muore…

Finché restavo con lui evitavano di farlo… Ma quando io non c’ero lo fotografavano… Indosso non aveva niente, coperto solo da un lenzuolino leggero.

Lo cambiavo io ogni giorno e la sera era tutto insanguinatoQuando lo sollevavo, dei pezzetti della sua pelle mi restavano appiccicati alle mani.

Quando esco in corridoio dico all’infermiera: “Sta morendo”. E lei mi risponde: “E cosa credevi? Ha ricevuto milleseicento Rontgen quando la dose mortale è di quattrocento. Sei accanto a un reattore”…

Gli ultimi avvenimenti li ricordo a sprazzi. Passo la notte accanto a lui, sulla sediola… Alle otto gli dico: “Vase’ka, io vado”.

Ero appena arrivata in albergo e mi ero distesa per terra, non potevo mettermi a letto da quanto mi faceva male tutto, che già un’ausiliaria bussava alla porta: “Vai! Corri da lui! Non la smette più di chiamarti!” Ma quella mattina Tania Kibenok mi aveva talmente supplicato: “Vieni con me al cimitero. Senza di te non ce la faccio.” Quel mattino seppellivano il marito e un altro pompiere. Le nostre famiglie erano molto amiche. Il giorno prima dell’esplosione abbiamo fatto una foto tutti insieme, nell’alloggio del reparto. Come sono belli i nostri mariti in quella foto! Allegri! L’ultimo giorno della nostra vita di prima… E come siamo felici!

Torno dal cimitero, telefono all’infermiera di guardia… “Come sta?”. “E’ morto un quarto d’ora fa”.

[1] Svetlana Aleksievic, Preghiera per Chernobyl, Roma, Edizioni e/o, 2002, pagg. 11-24

 Potete trovare altre significative testimonianze nel libro “Preghiera per Chernobyl” di Svetlana Aleksievic