“Eventi traumatici e disastri possono gettare l’esistenza dell’individuo nel caos, provocando un’intensa paura degli imprevisti, timore di morire, di subire perdite e danni fisici.”[1]
Questi disturbi sono elencati nel DSM, sotto la voce ‘disturbi post-traumatici da stress’ e sono raggruppati in tre categorie principali: le esperienze in cui l’evento traumatico è rivissuto (incubi notturni, pensieri, sensazioni ed emozioni); i sintomi di deviamento e attenuazione della reattività generale (si evitano i luoghi e gli elementi che possono riattualizzare le emozioni; diminuisce l’interesse per gli altri, ci si distacca e si è incapaci di provare emozioni positive); l’aumento dell’attivazione fisiologica (difficoltà ad addormentarsi, a concentrarsi, l’ipervigilanza, esagerate risposte d’allarme).
Con il passare del tempo, per molti, questi sintomi svaniscono; altre persone invece peggiorano, giungendo a situazioni di generale disadattamento sociale.
“Un’ampia serie di ricerche ha evidenziato il nesso profondo che esiste tra situazioni traumatiche e disagi psichici protratti per lunghi anni dal cessato pericolo (Lewis, 1997; Pynoos, 1990; Drell, Siegel, Gaensbauer, 1996).
Gli effetti a lungo termine di queste condizioni possono tradursi in sintomi eclatanti (somatizzazioni, comportamenti fobici, disfunzioni alimentari), ma anche in aumento di comportamenti a rischio in età adulta, quali l’abuso di tabacco, d’alcol, di stupefacenti, fino ad un preoccupante aumento dei tassi di autolesionismo.”[2]L’incidente alla centrale di Chernobyl, in quanto disastro, è stato sicuramente portatore di disturbi post-traumatici da stress, soprattutto per chi ha assistito quella notte all’incendio e per i liquidatori.
La maggior parte di questi, infatti, risulta soffrire dei sintomi sopra descritti, soprattutto di incubi notturni, insonnia e di un senso di estraneità rispetto al resto del mondo.[3]
Inoltre, alcuni dati rivelano che tra i dipendenti che lavorano a Chernobyl il 21% si è tolto la vita.
Questi disturbi non risparmiano neppure i bambini.
È necessario perciò porre particolare attenzione alle conseguenze, che potrebbero lasciare segni profondi in un’età ancora così vulnerabile.
Innanzitutto, bisogna considerare che “visti con gli occhi e la mente dei bambini, gli eventi connessi alle emergenze possono apparire assai diversi da come appaiono agli adulti. Non conoscere o sottovalutare le differenze tra lo sguardo infantile e lo sguardo adulto può rendere inefficaci i tentativi di sostegno e soccorso, di protezione e rassicurazione.”[4]
Ecco alcune testimonianze di bambini sul disastro alla centrale nucleare[5]:
“I soldati lavavano gli alberi, le case, i tetti… Lavavano le mucche del kolkoz… Io pensavo: “ Poveri animali della foresta! Nessuno li lava. Moriranno tutti. E neanche la foresta la lava nessuno. Morirà anche lei.” La maestra ha detto “Disegnate la radiazione”. Io ho disegnato una pioggia gialla… E un fiume rosso…”.
“Nel nostro villaggio erano scomparsi i passeri… già il primo anno dopo l’incidente… Li si poteva trovare dappertutto a pancia all’aria: nei giardini, sull’asfalto. Li raccoglievano con il badile e li portavano via nei cassoni della spazzatura insieme alle foglie. Quell’anno era vietato bruciare le foglie, erano radioattive. Venivano seppellite. Dopo due anni i passeri sono tornati. Ne siamo stati felici, ce lo gridavamo a vicenda: “Ho visto un passerotto… Sono tornati…” Invece i maggiolini sono spariti. Forse torneranno tra cento o mille anni, come dice il nostro insegnante. Ma io non li vedrò…”.
Come si può vedere, per i bambini l’incidente di Chernobyl è stato qualcosa di soprannaturale, che fa diventare la pioggia gialla e i fiumi rossi, una sporcizia che uccide, perciò bisogna lavare, un evento talmente terribile da portare conseguenze per cento, mille anni.
Ciò che però viene percepito in pericolo non sono loro o i familiari, ma il mondo circostante. Questo perché è difficile per un bambino percepire il pericolo della radiazione: non si vede, non si sente, spesso nemmeno gli adulti si sentono minacciati. Ciò che può creare maggiori disturbi è il sentimento di dolore e colpa per le conseguenze del disastro: la perdita di un genitore, le malattie legate all’irradiazione, il senso di colpa sul fatto che loro sono vivi mentre la mamma o il papà sono morti…
Un altro aspetto importante è il totale cambiamento della vita di tutti i giorni: molti sono stati costretti a lasciare le loro case, i loro amici, le loro abitudini. Ciò significa doversi riadattare e ricominciare, in un’altra casa, con altri amici, in un’altra scuola.
“La difficoltà di adattamento e di recupero può essere altresì dovuta a un’assistenza non adeguata nella fase immediatamente successiva al disastro o nell’assistenza a lungo termine.”[6]
E purtroppo sappiamo che l’assistenza fornita per l’incidente di Chernobyl è stata minima e molto tardiva.
Tutte queste riflessioni portano dunque ad affermare che la catastrofe di Chernobyl ha lasciato una traccia indelebile nelle vite dei popoli colpiti, soprattutto in considerazione del fatto che le conseguenze sui minori, il futuro di uno Stato, avranno ripercussioni per molti anni.
Nella tragedia di Chernobyl ci sono tanti responsabili: l’inesperienza e l’incompetenza di chi vi lavorava, la disinformazione della gente, l’orgoglioso silenzio della Russia e dei giornali.
Tutti questi fattori hanno concorso a fare di Chernobyl una delle peggiori catastrofi nella storia dell’uomo. Ciò che rende il tutto ancora più problematico è il fatto che questo disastro si sia abbattuto su nazioni molto povere, prive di risorse per potersi risollevare autonomamente e, dopo la disfatta dell’impero russo, lasciate sole.
[1] Cristina Castelli – Fabio Sbattella, Psicologia dei disastri,Roma, Carocci, 2003, pag.105
[2] Ivi, pag.108
[3] Molte sono le testimonianze raccolte nel volume di Svetlana Aleksievic, Op. cit.
[4] Cristina Castelli – Fabio Sbattella, Op. cit., pag.109
[6] Cristina Castelli – Fabio Sbattella, Op. cit., pag.120